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EMISSIONI VULCANICHE E VARIAZIONI CLIMATICHE INDOTTE

 di Arturo Cannito

       - Introduzione

       - Il ciclo geochimico del carbonio ed effetti sul clima in conseguenza delle variazioni di CO2

         atmosferica.

       - Effetti sul clima indotti da emissioni vulcaniche di anidride solforosa.

       - Effetti degli aerosol di origine vulcanica sull’ozono stratosferico antartico.

       - L’anno senza estate.

      - Tecniche e strumenti d’indagine.

      - Conclusioni.

      - Bibliografia

 

  I N T R O D U Z I O N E

      Le eruzioni vulcaniche possono modificare le proprietà fisiche, chimiche e concentrazione dei gas dell’atmosfera. Tali cambiamenti determinano variazioni climatiche agendo in particolare sulle proprietà ottiche, riducendo la trasparenza dell’atmosfera. Secondo questo presupposto, ciò comporterebbe una diminuzione della radiazione solare incidente sulla superficie terrestre con conseguente raffreddamento dei bassi strati troposferici. Ma se è vera questo semplice deduzione basata essenzialmente sul bilancio radiativo globale, è pur vero che gli effetti sul clima difficilmente sono evidenti a causa della complessità del sistema. Allo stato attuale delle conoscenze la maggior parte degli studi fanno riferimento a due testimonianze di valore storico. La prima è un’osservazione del fenomeno compiuta da Benjamin Franklin nell’anno 1784, e l’altra il vecchio testo di Humphreys, “Phisics of the Air” del 1940. La testimonianza di Franklin si riferiva all’eruzione storica del vulcano Laki, da quella epoca molti eventi eruttivi si sono succeduti, tuttavia non è ancora possibile una correlazione certa tra eruzioni vulcaniche e clima. Negli ultimi anni gli studi dei climatologi  si sono indirizzati verso lo studio delle interazioni possibili tra gas vulcanici, particolato prodotto nel corso delle eruzioni e sistema atmosfera.

Tra i prodotti dell’attività vulcanica i gas emessi durante le eruzioni interagiscono con  l’atmosfera modificandone le proprietà. Nel corso delle eruzioni i gas possono essere campionati e studiati direttamente alle bocche, mentre per quelle del passato si possono analizzare le microscopiche inclusioni presenti nei cristalli e nei vetri vulcanici. Negli ultimi anni un notevole contributo è stato dato dallo studio delle parti d’aria inglobate nei ghiacci groenlandesi e antartici.

Mediante carotaggi eseguiti in queste zone e la successiva estrazione delle bolle d’aria inglobata nei ghiacci si è potuto risalire alla composizione dell’atmosfera fino a quasi 200.000 anni fa.

   Il componente volatile più importante dei gas vulcanici è l’H2O che costituisce il 90% delle emissioni gassose. La sua quantità varia da un minimo di 0,1% nei magmi di dorsale oceanica ad un massimo di 5% nei magmi continentali. Dalle analisi effettuate sugli isotopi si può affermare che buona parte di questa acqua è di origine meteorica.

 

    Gli altri costituenti principali  dei gas vulcanici, in ordine decrescente di concentrazione, sono:

 

CO2

Anidride carbonica – abbondante alle basse temperature

SO2

Anidride solforosa – talvolta presente in notevole quantità

HCL

Acido cloridrico – diffuso in quasi tutte le emissioni vulcaniche

H2

Idrogeno 

H2S

Idrogeno solforato - abbondante alle basse temperature

HF

Acido fluoridrico

CO

Ossido di carbonio – abbondante alle alte temperature

N2

Azoto - alle basse temperature

CH4

Metano

 

  Tra questi quelli che hanno maggiore rilevanza per gli effetti climatici ed ambientali sono:

- l’anidride carbonica – che entra nel ciclo geochimico del carbonio che regola il    trasferimento del carbonio fra atmosfera,oceano e crosta terrestre,responsabile dell’effetto serra;

- l’anidride solforosa che trasformandosi in acido solforico nella bassa troposfera riflette la radiazione solare, provocando un raffreddamento diretto della terra. Inoltre contribuisce  alla distruzione dello scudo di ozono e rende acide le piogge;

- l’acido cloridrico che introdotto nella stratosfera contribuisce alla deplezione dell’ozono stratosferico Antartico;

 - dust grains - altro fattore importante determinato dalle polveri vulcaniche che in occasioni di forti esplosioni possono infiltrarsi nella stratosfera partecipando alla circolazione generale dell’atmosfera.

 

 

 

 

Passiamo all’analisi di ciascuno di questi aspetti.

  

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IL CICLO GEOCHIMICO DEL CARBONIO ED EFFETTI SUL CLIMA IN CONSEGUENZA DELLE VARIAZIONI DI  CO2 ATMOSFERICA.

 

   

 

    L’ anidride carbonica prodotta dalle emissioni vulcaniche potrebbe aver avuto importanti effetti sul clima della terra.

La maggior parte del carbonio terrestre è contenuta nelle rocce sedimentarie.

Il carbonio atmosferico è parte del complesso ciclo geochimico che controlla il trasferimento del carbonio dalle rocce sedimentarie che si trovano sulla superficie terrestre, alla biosfera, oceani e quindi atmosfera.

Il carbonio presente nell’atmosfera si trova principalmente sotto forma di anidride carbonica (CO2) che gioca un ruolo fondamentale nel ciclo geochimico.

L’ anidride carbonica (CO2) viene assunta dalle piante e da esse fissata nel suolo, dove reagisce con acqua per dare acido carbonico H2CO3 .

Questo altera chimicamente i minerali carbonatici:

 

CO+ H20 + CaCO3  à Ca++ + 2HCO3- 

 

 e silicatici

 

2 CO2 + H20 + CaSiO3 à Ca++ + 2HCO3- + SiO2  

 

   

producendo ioni bicarbonato (HCO3-), ioni calcio (Ca++) e silice (SiO2) in soluzione.

Tali prodotti vengono trasportati dai fiumi fino agli oceani, dove gli organismi incorporano gli ioni calcio e bicarbonato, combinandoli nuovamente in carbonato di calcio e liberando CO2, che alla fine ritorna nell’atmosfera.

L’alterazione dei carbonati non comporta una diminuzione netta di CO2 atmosferica.

Anche gli ioni calcio e bicarbonato risultanti dall’alterazione dei silicati, però, reagiscono formando carbonato di calcio; in queste reazioni solo metà della CO2 ritorna all’involucro gassoso che ricopre la terra, cosicché si ha come risultato una diminuzione di questo gas nell’atmosfera.

Se questo processo operasse incontrastato per un periodo di circa 10.000 anni, l’alterazione dei silicati condurrebbe alla totale scomparsa dell’anidride carbonica nell’atmosfera.

Ciò non è mai avvenuto, altrimenti la vita sulla terra avrebbe cessato di esistere; un qualche meccanismo deve intervenire a ripristinare i livelli atmosferici di CO2.

Questo meccanismo è la liberazione di anidride carbonica che accompagna le eruzioni vulcaniche e i fenomeni correlati.

Quando i carbonati di calcio e magnesio si trovano sepolti a profondità di molti chilometri, vanno soggetti a temperature elevate, da far si che abbiano luogo reazioni tra calcio, magnesio e silicati circostanti.

Queste reazioni producono nuovi silicati e anidride carbonica:

 

CaCO3 + SiO2 à CaSiO3 + CO2

 

Alla fine l’anidride carbonica riesce a farsi strada fino all’atmosfera, talvolta in modo dirompente, come nel corso delle eruzioni vulcaniche , talvolta in modo sommesso e inosservato, come in una sorgente di acqua naturale gassata.

Insieme alla liberazione di CO2 che viene generata nella sedimentazione dei carbonati

 

2HCO3- + Ca++  à CaCO3 + H2O + CO2

 

questo  <<degassamento>>  delle rocce è il principale meccanismo attraverso cui il carbonio viene restituito all’atmosfera, chiudendo il ciclo geochimico.

Il degassamento può avere luogo in ambienti molto vari, particolarmente diffuso nelle zone di subduzione.

Nel processo di subduzione, una zolla scorre sotto l’altra, trascinando i sedimenti carbonatici a grande profondità verso il mantello, dove essi sono sottoposti a un intenso riscaldamento.

Il degassamento avviene anche al centro delle zone oceaniche e lungo le dorsali medio-oceaniche.

Diversi aspetti del ciclo geochimico del carbonio, quali l’alterazione, il seppellimento dei sedimenti e il degassamento, possono essere trattati da un punto di vista quantitativo con l’aiuto di modelli al calcolatore. Partendo da livelli attuali di CO2 nell’atmosfera, e facendo girare all’indietro i modelli fisico –matematici, si possono ipotizzare i livelli planetari di CO2 in tempi remoti.

Tra le varie problematiche incontrate per inizializzare i modelli,la più complessa è il calcolo dei tassi di degassamento dovuti a fenomeni ignei e metamorfici.

Generalmente si assume che questi tassi sono direttamente proporzionali alla velocità con cui si forma nuova crosta oceanica.

Questo modo di procedere ci mette in grado di determinare i tassi del passato relativamente a quelli attuali.

Partendo dal presupposto che il livello di CO2 atmosferica non abbia subito fluttuazioni incontrollate nel tempo, il degassamento vulcanico – metamorfico deve sostanzialmente compensare la CO2 sottratta all’atmosfera dai processi di alterazione chimica e di deposizione di carbonato di calcio.

L’assunto secondo cui il livello di anidride carbonica non sarebbe variato nel tempo in modo incontrollato è evidentemente valido, per il semplice fatto che la vita esiste sulla terra.

Se il tasso di degassamento si dimezzasse , tutta la CO2 atmosferica e quella disponibile negli oceani verrebbe ad esaurirsi nel giro di 600 000 anni, comportando la cessazione della fotosintesi. Se il tasso di degassamento raddoppiasse, l’eccesso di CO2 condurrebbe, per effetto serra, all’estinzione della vita animale e vegetale in pochi milioni di anni.

Un leggero sbilanciamento nei flussi tra le componenti del ciclo geochimico del carbonio, ha portato a una generale diminuzione dell’anidride carbonica atmosferica nel corso degli ultimi 100 milioni di anni.

Di conseguenza, a causa dell’attenuazione dell’effetto serra, la temperatura ha subito un raffreddamento.

Nel Cretaceo (135 – 65 milioni di anni fa), invece la temperatura media superficiale della terra era più alta di quella attuale.

Prove a sostegno sono i fossili di vegetali e animali che vivono attualmente in climi caldi, ritrovati in luoghi che nel Cretaceo erano regioni polari.

Per riscontrare le temperature stimate dai paleontologi e dai geochimici per le alte latitudini durante il Cretaceo, i livelli di CO2 dovrebbero essere da quattro a otto volte gli attuali.

E’ evidente che le variazioni climatiche del passato geologico siano state causate principalmente da variazioni del contenuto di CO2 in atmosfera. 

Questa teoria della <<paleoserra>> è stata energicamente sostenuta da Alfred G. Fischer (Princeton University). Egli ha dimostrato che per gli ultimi 600 000 milioni di anni vi è una buona correlazione tra periodi con temperature elevate, alti livelli del mare e maggiore abbondanza di rocce ignee.

Durante i periodi glaciali si osservano invece bassi livelli del mare e una minore quantità di rocce ignee.

Risulta quindi chiaro come la terra sia passata da << periodi serra >>, a      << periodi ghiacciaia >>, in dipendenza all’attività tettonica e dall’emissione di  per CO2 degassamento.

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EFFETTI SUL CLIMA INDOTTI DA EMISSIONI VULCANICHE DI ANIDRIDE SOLFOROSA

 

    

   Un componente minore delle emissioni vulcaniche che ha però una certa importanza per i suoi effetti ambientali e climatici è la SO2. Il flusso medio di SO2 (terzo componente in ordine di abbondanza dei gas eruttivi dopo H2O  e CO2 ), prodotto dalle eruzioni vulcaniche, è stimato a 11,9 x 106 tonnellate all’anno sulla base di misure dirette con strumentazione COSPEC (correlation spectrometer) sul plume eruttivo. La quantità di gas emessa durante le eruzioni è sempre molto superiore a quella che poteva essere contenuta nel volume di magma eruttato. Ne consegue che al processo di  degassamento contribuisce in larga misura il magma << intrusivo>> presente nel sottosuolo del vulcano. Per esempio, nell’eruzione del Nevado del Ruiz in Colombia,  (13 novembre 1985) è stato stimato, con il TOMS (total ozone mapping spectrometer) da satellite in orbita polare, un rilascio totale di SO2 di circa 2 x 106 tonnellate.

Considerato il contenuto di zolfo del magma andesitico eruttato, una tale quantità di SO2 implica il degassamento totale di 0,66 chilometri cubi di magma, mentre il volume di magma effettivamente eruttato fu di soli 0,035 chilometri cubi. In effetti, anche in periodi non eruttivi i vulcani emettono in continuazione nell’atmosfera quantità rilevanti di gas rilasciati dal magma che staziona nei serbatoi di alimentazione superficiali. Il flusso di SO2 dal degassamento non eruttivo dei vulcani viene valutato intorno alle 6,8 x 106  tonnellate all’anno. Questo valore probabilmente è sottostimato a causa del numero relativamente piccolo di misure dirette del flusso di gas emesso dalle eruzioni vulcaniche o dai vulcani quiescenti con sola attività fumarolica.           

Dagli studi effettuati, il biossido di zolfo generalmente permane nello stesso emisfero nel quale è stato prodotto. Il completo rimescolamento termico e chimico dell’atmosfera richiede all’incirca un anno, cioè un periodo di gran lunga maggiore del tempo di permanenza sia del biossido di zolfo sia dell’aerosol di acido solforico da esso prodotto.

L’aerosol per definizione è costituito da particelle solide e/o liquide disperse in un sistema gassoso. Durante un’eruzione vulcanica esplosiva la frazione più fine della cenere vulcanica (diametro 5 e 0,5 μm) forma sospensioni meccanicamente stabili nell’atmosfera. Quando la taglia scende sotto 0,1 μm la velocità di sedimentazione diviene trascurabile e queste particelle possono essere trasportate a grande distanza dal punto di emissione. 

Gli aerosol che prendono origine dall’anidride solforosa sono formate da microgocce di acido solforico.

Circa metà dei gas contenenti zolfo scompare in breve nell’atmosfera, in parte trascinata al suolo dalle piogge e in parte per razioni chimiche dirette con le piante, il suolo e l’acqua marina. La quantità restante si ossida reagendo con composti presenti nella troposfera e forma così le particelle che compongono l’aerosol.

In effetti quasi tutti i gas contenenti zolfo reagiscono chimicamente in presenza di agenti ossidanti, il più importante dei quali è il radicale ossidrile. 

Le reazioni che portano alla formazione di un aerosol di acido solforico possono essere suddivise in processi che avvengono a cielo sereno e processi che hanno luogo nelle nubi .

Nel primo tipo il biossido di zolfo reagisce in presenza di vapore acqueo e, attraverso una complessa serie di stadi, produce acido solforico il quale forma particelle di dimensioni pari a una frazione di micrometro.

Il processo avviene per condensazione su particelle già esistenti o per interazione con vapore acqueo o con altre molecole di acido solforico.

E’ questa la cosiddetta conversione gas – particelle.

L’acido solforico reagisce poi con piccole quantità di ammoniaca, per dare varie forme idrate di solfato di ammonio.

Il processo di produzione di acido solforico all’interno delle nubi,invece, inizia con la dissoluzione del biossido di zolfo nelle goccioline che costituiscono le nubi; qui esso può venir ossidato dal perossido di idrogeno che si forma in piccola concentrazione per combinazione di ossidrili. La reazione di ossidazione forma quindi acido solforico e i suoi Sali di ammonio in soluzione. Il solfato acido è presente in forma fortemente idrata, nella quale diverse molecole d’acqua sono legate al solfato.

L’evaporazione rimuove parte dell’umidità e, dato che i solfati si legano fortemente all’acqua, ne risulta una soluzione fortemente concentrata.

Il risultato finale è un aerosol costituito da goccioline di diametro inferiore a un micrometro, chimicamente indistinguibili da quelle dell’aerosol prodotto nella conversione gas – particelle.

La forte affinità chimica che l’acido e i suoi sali hanno per l’acqua è importante nel determinare la capacità dell’aerosol di diffondere la luce. Quando le minuscole goccioline acide si miscelano con aria umida ,tendono ad assorbire umidità e, quindi, a crescere di volume.

Una volta formatesi per reazione chimica, le particelle ricche di zolfo presenti nella troposfera possono produrre un raffreddamento del clima con due meccanismi: il primo, che avviene con il cielo sereno, consiste nella riflessione diretta di parte della radiazione solare entrante, e il secondo, più indiretto, nell’aumento della riflettività delle nubi. Nel primo meccanismo le particelle dell’aerosol diffondono la luce solare nello spazio, al di fuori dell’atmosfera, e quindi una minore quantità di radiazione solare può raggiungere il suolo.

Un altro aspetto è, inoltre, quello legato ad eruzioni vulcaniche esplosive, con immissione di gas anche nei livelli più alti dell’atmosfera e quindi relativa formazione di acido solforico nella stratosfera. In tal modo si viene a costituire una nube che avvolge la terra su una larga fascia di latitudine per un paio di anni con intensità decrescente. L’effetto predominante di questa nube è quello di riflettere la radiazione solare, che, in assenza di altri meccanismi, provocherebbe un raffreddamento della parte bassa dell’atmosfera e, quindi, della superficie. Inoltre essa è responsabile della formazione di un substrato su cui agiscono i composti capaci di distruggere l’ozono stratosferico.

  Una difficoltà nella verifica di tale teoria riguarda la necessità di disporre di dati piuttosto precisi sull’entità dell’eruzione vulcanica e soprattutto sulla quantità di gas iniettato nella stratosfera. Una diretta stima della massa di aerosol presenti nella stratosfera dopo un’eruzione vulcanica si è potuta avere solo dall’eruzione del vulcano Agung, in Indonesia, nel 1963, con l’uso di uno strumento noto come lidar. Questo dispositivo, che è l’equivalente ottico del radar , usa un laser ad alta potenza per sondare la stratosfera e può fornire direttamente il profilo verticale della densità della nube con la quota. Ma, nonostante il continuo sviluppo dei mezzi d’indagine, lo studio degli effetti climatici indotti da immissione in atmosfera di anidride solforosa risulta complicato dalle notevoli emissioni di origine antropica.

  Risulta quindi difficile stimare l’impatto climatico che può produrre quella di origine vulcanica e allo stato attuale non è ancora possibile stabilire una diretta relazione causa effetto.

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 EFFETTI DEGLI AEROSOL  DI ORIGINE VULCANICA SULL’OZONO STRATOSFERICO ANTARTICO

 

 

 

 

   L’aerosol introdotto nell’atmosfera in occasione di eruzioni vulcaniche può contribuire a intaccare lo strato di ozono assottigliandolo, come è avvenuto durante l’eruzione del vulcano filippino Pinatubo nel 1991. In quella circostanza diversi fattori hanno giocato un ruolo fondamentale nella diffusione degli aerosol nella stratosfera. I particolare  la posizione geografica del vulcano (nei pressi dell’Equatore) e l’eruzione di tipo esplosivo. 

Nell’anno successivo la quantità di ozono stratosferico ( tra i 18 e 40 km di quota) scese ai livelli più bassi mai misurati. Le emissioni vulcaniche hanno svolto un ruolo chiave in questa temporanea distruzione dell’ozono accentuando i danni già svolti dai clorofluorocarburi (CFCs) per decadi.

I CFCs considerati un tempo sicuri, in quanto inerti, tendono a persistere nell’ambiente, in particolare nell’atmosfera terrestre dove vanno alla deriva nei bassi livelli stratosferici. Una delle poche cose che può distruggere le molecole di CFCs sono i raggi ultravioletti. La maggior parte della radiazione ultravioletta del sole non raggiunge la terra perché assorbita dall’ozono nella stratosfera.  La fascia di CFCs, fluttuante al di sopra dello strato di ozono, assorbe radiazione ultravioletta. Ne consegue una rottura delle molecole di clorofluorocarburi e produzione di singoli atomi di cloro. Quando un atomo libero di cloro viene a contatto con una molecola di ozono, l’atomo di cloro si lega ad un atomo di ossigeno della molecola di ozono, distruggendola. In seguito, a causa dell’instabilità del legame, l’atomo di cloro si libera rapidamente dell’atomo di ossigeno, continuando a distruggere altre molecole di 03. La distruzione si arresta solo quando l’atomo di cloro incontra una molecola diversa dall’ozono e forma un composto abbastanza pesante da cadere al suolo. Una tipico composto che può fissare  un atomo di cloro libero è l’ossido di azoto. Tuttavia, gli aerosol vulcanici eliminano l’ossido di azoto dalla stratosfera inducendolo a reagire con il vapore acqueo ed a formare goccioline di acido nitrico che cadono a terra. Con meno ossido di azoto nella stratosfera, gli atomi di cloro da CFCs distruggono molte più molecole di ozono che ordinariamente. Secondo studi effettuati da Drew Shindell uno specialista dell’ozono del Goddard Institute for Space Studies, una molecola di cloro può distruggere 400 molecole di ozono in presenza di aerosol vulcanici, da 20 a 40 volte in più di quanto accade normalmente.

Gli aerosol vulcanici distruggono le molecole di ozono seguendo anche un’altra via. Le reazioni chimiche che distruggono l’ozono accelerano in presenza di particelle nell’atmosfera come cristalli di ghiaccio,poiché forniscono una superficie su cui le reazioni possono accadere. E’ questo il motivo perché il buco dell’ozono appare ogni inverno sull’Antartide. Non ci sono più molecole di CFCs lì che altrove, ma ci sono più cristalli di ghiaccio, che forniscono le superfici perché le reazioni chimiche possano avvenire. Le particelle di aerosol generate dai vulcani svolgono un ruolo simile ai cristalli di ghiaccio. Forniscono le superfici adatte per le reazioni chimiche , contribuendo all’espansione del buco dell’ozono.

L’eruzione del Pinatubo ha prodotto più aerosol degli ultimi 100 anni di eruzioni. Se nel futuro dovesse accadere un’eruzione dieci o cento volte più grande gli effetti sull’ozono stratosferico potrebbero essere disastrosi.

Eruzioni del passato della stessa entità del Pinatubo del 1991 non sono state una grave minaccia per l’ozono proprio a causa dell’inesistenza dei CFCs nella stratosfera. Nonostante l’eliminazione dei CFCs dai processi industriali, le notevoli quantità liberate in passato persisteranno nell’atmosfera per circa un secolo.

Quindi finché persisteranno i CFCs nella stratosfera, le eruzioni vulcaniche continueranno ad essere una grave minaccia per lo strato di ozono e per il clima del pianeta.

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L’ANNO  SENZA  ESTATE

 

 

     L’anno 1816 è leggendario negli annali della meteorologia. E’ stato chiamato “l’anno senza estate”. Da maggio a settembre, una serie senza precedenti di ondate di freddo colpiva il nordest degli Stati Uniti e le province canadesi adiacenti, causando una tardiva primavera, un’estate fredda e un precoce inverno.    

Vi fu neve in giugno, gelate in luglio e agosto. Si verificarono danni notevoli all’agricoltura e si verificò una carestia diffusa.

La cronaca di questo straordinario periodo è ben documentata nei diari e nelle memorie di coloro che lo hanno vissuto.

La maggior parte delle osservazioni meteo del periodo furono realizzate a Williamstown nell’angolo nordoccidentale del Massachusetts. Nelle statistiche delle temperature si riporta una prima ondata di freddo tra Aprile e Maggio, poi un periodo relativamente caldo fino al 5 giugno, a cui seguì una disastrosa ondata fredda in conseguenza di avvezione di una massa d’aria artica. In seguito, per tutta l’estate, si ebbero continue alternanze di periodi freddi seguiti da temporanei e brevi periodi miti. L’ultima terribile ondata di freddo di quella anomala estate si ebbe il 27 Settembre. Seguì un rigidissimo inverno con gelate diffuse e abbondanti nevicate che colpì prevalentemente i tre stati nordici del Vermont, New Hampshire e Maine. L’anomalia climatica che colpì severamente il nordest degli Stati Uniti interessò buona parte dell’emisfero settentrionale. Si ebbero carestie anche in Francia e Germania. Ma il motivo di questo anomalo abbassamento delle temperature fu accertato solo un secolo più tardi da William Humphreys . In seguito agli studi effettuati, egli sostenne che la variazione climatica era stata causata in gran parte da polvere vulcanica diffusa nell’atmosfera terrestre. Tale polvere proteggeva parzialmente la terra dai raggi del sole, consentendo però la fuga del calore dai bassi strati troposferici e causando così un diffuso abbassamento delle temperature. Infatti tra il 1812 e 1817 vi furono tre importanti eruzioni. Il vulcano Soufriere  sull’isola di St. Vincent nel 1812; ; Mayon nelle  Filippine nel 1814; e Tarmbora sull’isola di  Sumbawa in Indonesia nel 1815. La peggiore fu quella del Tambora che immise nell’atmosfera enormi quantitativi di cenere vulcanica dal 7 al 12 Aprile 1815.

E’ stato stimato che la titanica eruzione del Tambora produsse da 69 a 190 Km3 di polvere e cenere che, introdotte nella circolazione generale dell’atmosfera, generarono un velo intorno al globo terrestre. 

L’idea che la polvere vulcanica sospesa nell’atmosfera potesse abbassare la temperatura della terra è stata partorita nel 1913 da William Humphreys. Egli  pubblicò uno studio, passato alla storia, in cui si documentava la correlazione tra eruzioni vulcaniche di notevole entità e diminuzione globale della temperatura. Secondo Humphreys, la polvere vulcanica è circa 30 volte più efficace nel respingere  la radiazione solare verso l’alta atmosfera di quanto sia capace di trattenerla all’interno. Inoltre, le polveri possono circolare per anni nella stratosfera prima di sedimentare al suolo ( le particelle più fini dell’eruzione del Krakatoa nel 1883, per esempio, sono rimaste in circolazione da due a tre anni prima di raggiungere la superficie terrestre).

Durante questo periodo la temperatura media del mondo intero può cadere di un grado o due; mentre locali perdite possono essere considerevolmente più grandi. Tuttavia, l’effetto più drammatico che si verificò nell’estate del 1816 fu la caduta delle temperature minime. In concomitanza di questi fattori si verificarono anche nei mesi di Maggio e Giugno delle macchie solari, secondo le cronache dell’epoca, ben visibili anche attraverso un vetro affumicato.

Le macchie solari nei periodi di massima attività possono ridurre le temperature medie terrestri anche di mezzo grado. Humphreys, tuttavia, dimostrò che sebbene vi fosse una correlazione tra diminuzione delle temperature medie e massimo sviluppo di sunspots, i minimi delle curve delle temperature medie si erano verificate sempre in corrispondenza di grandi quantitativi di polvere di origine vulcanica nella stratosfera. Un esempio fu anche il famoso anno freddo del 1785, quando si verificarono le eruzioni del monte Asama in Giappone e Skaptar Jokull in Islanda. La concomitanza di queste eruzioni generò una estesa “ dry fog ”, il fenomeno atmosferico che lo stesso Benjamin Franklin collegò con le diminuzioni diffuse delle temperature e le eruzioni vulcaniche. Dall’esame di queste prove oggettive risulta quindi evidente come le polveri vulcaniche possano influenzare il clima terrestre.

Ogni relativa piccola variazione nelle temperature medie annuali terrestri può causare cambiamenti nei ghiacci polari, nei livelli del mare, nelle aree desertiche e nei limiti geografici delle piante, animali e infine può condizionare la vita umana. Secondo Humphreys, la polvere vulcanica in circolazione nella stratosfera, per un periodo di uno o due anni,può  provocare un abbassamento di temperatura sufficiente a coprire la terra con un manto di neve cosi esteso da consentire condizioni favorevoli affinché cominci un’era glaciale. E’, quindi, evidente come le polveri di origine vulcanica possono essere un fattore determinante di quel complesso sistema che è la dinamica del clima, giocando un ruolo importante nei cambiamenti climatici delle ere geologiche passate.

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 TECNICHE E STRUMENTI DI INDAGINE

 

     Attualmente vengono utilizzate diverse tecniche e strumenti d’indagine:

 

IL LIDAR - detto anche radar laser, è l’equivalente ottico del radar ,invia impulsi di luce laser, ne osserva il ritorno attraverso un telescopio e può fornire direttamente il profilo verticale della densità della nube con la quota. Le lunghezze d’onda del laser dell’ordine del micron consentono di fare stime quantitative degli aerosol presenti nell’atmosfera.

Uno dei più potenti sistemi lidar del mondo è stato costruito dal gruppo diretto da G. Fiocco, che lavora presso la sezione di Frascati dell’Istituto di Fisica dell’Atmosfera del CNR. L’apparecchio è costituito da un mosaico di 36 specchi equivalente ad un unico specchio di tre metri di diametro. Come sorgente di luce coerente il sistema usa un laser a neodimio – YAG che può emettere a diverse lunghezze d’onda con un’energia di 0,5 joule/impulso.

 

COSPEC – spettrometro di correlazione, progettato originariamente per gli studi sull’inquinamento viene utilizzato per stimare le emissioni di SO2.

 

(nella foto vulcanologi che utilizzano strumentazione COSPEC)

 

 

SATELLITI – che rilevano estensione e modalità di trasporto della nube.Generalmente si utilizzano satelliti ad orbita polare bassa della serie TIROS equipaggiati con radiometri del tipo AVHRR (Advanced Very Hight Resolution Radiometer) che posseggono cinque canali finestra ad alta risoluzione spaziale (1 Km). L’AVHRR è definito radiometro multispettrale, capace di osservare uno stesso oggetto a più frequenze, permette di distinguere i corpi a partire dalla risposta ottica e dalla morfologia dei singoli oggetti che occupano la scena.

 

 

PALLONI SONDA consentono l’analisi chimico - termodinamica dell’atmosfera fino ai livelli stratosferici. Si possono utilizzare sia quelli della rete mondiale delle osservazioni meteo che, lanciati  ad intervalli regolari di 12 ore, contribuiscono alle regolari osservazioni sinottiche, sia quelli lanciati in occasione di speciali eventi (eruzioni vulcaniche). Il treno di lancio dei palloni dispone di una serie di sensori e di un apparato trasmittente che invia a terra (ad intervalli regolari di pochi secondi) ad una stazione ricevente i dati rilevati. Inoltre, sono dotati di un ricevitore GPS (Global Position System) che consente di verificare lo spostamento subito dal pallone con la quota in funzione dei venti, molto utile per monitorizzare e prevedere lo spostamento di una eventuale nube vulcanica. Il lancio e la successiva ricezione dei dati consentono di elaborare il radiosondaggio. Si tratta di uno speciale prodotto di elaborazione in cui vengono riportati i dati rilevati in scala logaritmica, il più diffuso è il diagramma di Herlofson.

             

Apparato ricezione dati Digicora.

     

                  

 Contenitore dei sensori e apparato trasmittente collegato al treno di lancio.

 

Preparazione al lancio del pallone sonda.

   

 

AEROPLANIche, volando ad alta quota, possono prelevare direttamente campioni d’aria da analizzare. Molto diffusi negli Stati Uniti. Consentono sia una rilevazione sistematica che episodica degli aerosol atmosferici. Inoltre costituiscono un valido contributo per il campionamento in aree oceaniche dove difficilmente si può fare ricorso ad altri sistemi.

(nella foto velivoli utilizzati per monitoraggio atmosferico)

 

 

 

 

TOMS - (total ozone mapping spectrometer) può essere istallato come l’ AVHRR su  satelliti ad orbita polare bassa per il monitoraggio degli aerosol in atmosfera. Se utilizzato in simbiosi con l’AVHRR consente di elaborare analisi multispettrali.

 

 

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C O N C L U S I O N I

 

   Possiamo concludere questa breve ricerca dicendo che allo stato attuale delle conoscenze è appurato che le emissioni vulcaniche sicuramente possono influenzare il clima terrestre con effetti di limitata estensione sia spaziale che temporale. Mentre per le variazioni climatiche globali non esistono prove certe.

I loro effetti sembrano rientrare nella normale variabilità climatica, le cui cause sono peraltro ancora sconosciute. Le eruzioni comunque rappresentano una perturbazione del sistema climatico, e lo studio dell’interazione emissioni vulcaniche – atmosfera ha permesso nel corso degli ultimi anni di approfondire le conoscenze specialmente nei campi del bilancio radiativo globale dell’atmosfera e della fisica delle nubi. In futuro sicuramente molte risposte potranno essere fornite dall’analisi dei prodotti di postelaborazione dei modelli fisico – matematici. Infatti è proprio questa la nuova frontiera della ricerca, lo sviluppo di nuovi modelli che integrano una notevole mole di dati derivanti sia da fattori naturali che antropogenici. Il problema fondamentale per inizializzare i modelli resta la conoscenza delle condizioni iniziali. E’ necessario, per ottenere risultati attendibili integrare con buona approssimazione dati forniti simultaneamente dalle stazioni meteorologiche sinottiche, dai radiosondaggi, dalle osservazioni satellitari. Notevoli sforzi sono stati condotti in questo senso dall’ O.M.M. (Organizzazione Meteorologica Mondiale) per lo sviluppo di programmi di veglia meteorologica mondiale e trattamento dati al fine di uniformare e velocizzare la diffusione di informazioni meteorologiche. Un notevole passo avanti si avrà quando la rilevante quantità di dati verrà fornita prevalentemente dai satelliti, sia geostazionari che ad orbita polare bassa, che equipaggiati con radiometri sempre più precisi potranno fornire informazioni dettagliate sui traccianti atmosferici.

Per una maggiore conoscenza in una materia così delicata, è auspicabile in un futuro prossimo, un sempre maggiore impegno da parte dei paesi più industrializzati per sostenere le ricerche, in quanto il clima è patrimonio di tutta l’umanità.  

 

 

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 B I B L I O G R A F I A

 

 

 

-        Pompeo Casati “Scienze della terra” vol. 1 , Città Studi Ed.

(edizione 1996).

-        Franco Barberi “Eruzioni Vulcaniche” Le scienze, quaderni,

   (n°93 dicembre 1996).

-        Guido visconti “La dinamica del clima” Le scienze, quaderni,

(n°104 ottobre 1998).

-        Autori vari “Il clima che cambia” Le scienze, dossier,

(n°5 autunno 2000).

-        “The year without a summer” Patrick Hughes, NOAA.

(www.noaa.org)

-        The American Museum of Natural History-“ Earth Bulletin”.

Gavin Schmidt, NASA Goddard Institute for Space Studies, (www.AMNH.org)

 

 

 

 

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